Lettera di licenziamento ? L’avvocato a Roma per l’impugnazione del licenziamento
Qualora ti hanno proposto il trasferimento e temi che in caso di rifiuto tu possa essere licenziato, potresti avere bisogno di un avvocato cassazionista che si occupi di diritto del lavoro per impugnare il licenziamento.
La normativa applicabile al licenziamento e quando il licenziamento è illegittimo
Il licenziamento comminato da un datore di lavoro nei confronti di un singolo lavoratore incorre in particolari conseguenze qualora il provvedimento manchi di una giusta causa o di un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo).
In tali casi si parla di illegittimità del licenziamento e il lavoratore gode delle tutele previste dalla legge.
A seguito dell’entrata in vigore del Decreto legislativo n. 23/2015, l’ordinamento prevede regimi di tutela diversi a seconda che il lavoratore licenziato sia stato assunto prima o dopo il 7 marzo 2015.
Il licenziamento nullo
In caso di licenziamento nullo (perché discriminatorio, oppure perché comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge) o inefficace (perché intimato in forma orale), a tutti i lavoratori, quale che sia il numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro, è riconosciuto il diritto a essere reintegrati nel posto di lavoro e a vedersi corrisposta un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (cd. tutela reintegratoria piena)
Al di fuori delle suddette ipotesi, le tutele variano a seconda delle dimensioni del datore di lavoro che ha comminato il licenziamento e del tipo di vizio che rende illegittimo il provvedimento espulsivo.
Le differenze di trattamento del licenziato in caso di azienda con più o meno di 15 dipendenti
Occorre distinguere a seconda delle dimensioni dell’azienda per determinare la tutela applicabile al rapporto. E infatti:
1)La reintegra: se il licenziamento viene intimato da un datore di lavoro che supera le soglie dimensionali previste dall’art. 18 della legge 300/1970 (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale), si applicano i regimi di tutela previsti da tale norma, così come modificata dalla riforma del mercato del lavoro del 2012, regimi che, in talune specifiche ipotesi, contemplano la possibilità che il datore di lavoro sia condannato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
2. Solo il risarcimento: al di sotto di tali soglie (quindi con meno di 15 dipendenti), trova invece applicazione il più blando regime di tutela previsto dall’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della legge 108/1990, che riconosce al lavoratore illegittimamente licenziato il solo diritto a percepire un indennizzo economico, ovvero la corresponsione di una indennità risarcitoria compresa tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Quali sono i termini per impugnare un licenziamento con un avvocato a Roma?
- 60 giorni dalla ricezione della lettera per presentare richiesta di impugnazione;
- 180 giorni per depositare il ricorso in Tribunale.
Ciò a seguito della riforma Fornero che ha anche introdotto il cosiddetto processo breve che trova applicazione per tutte le controversie successive al 18 luglio 2012.
Il licenziamento con lettera raccomandata
Il licenziamento deve essere intimato preferibilmente con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno.
Attenzione tuttavia a conservare l’avviso di ricevimento della raccomandata del licenziamento.
Infatti, se di norma l’avviso di spedizione della raccomandata di un atto recettizio fa presumere che lo stesso sia giunto al destinatario presso il suo indirizzo (Cass ord. 511/19), tale presunzione di conoscenza non opera nel caso in cui sia contestata la ricezione dell’atto.
Afferma infatti la Corte di Cassazione che: “La presunzione di conoscenza di un atto, del quale sia contestato il suo pervenimento a destinazione, non è integrata dalla sola prova della spedizione della raccomandata, essendo necessaria, attraverso l’avviso di ricevimento o l’attestazione di compiuta giacenza, la dimostrazione del perfezionamento del procedimento notificatorio” (Cass. 12822/16; Cass. ord 19232/18).
Il licenziamento del dipendente pubblico per falsa attestazione della presenza servizio
Il dipendente pubblico rischia il licenziamento se attesta falsamente la presenza il servizio, ad esempio passando il badge di ingresso e poi recandosi a fare la spesa.
La norma colpisce i cosiddetti furbetti del cartellino e prevede l’immediata sospensione dal servizio ed il licenziamento senza preavviso.
La pubblica amministrazione deve tuttavia provare che effettivamente ricorrano i presupposti indicati dalla norma.
L’art. 55 quater, comma 1, lettera a) del D. Lgs. 165/2001, che prevede il licenziamento disciplinare in caso di:
“falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia”.
“Costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta”;
Il tal caso il lavoratore riceverà la contestazione disciplinare, potrà difendersi e successivamente potrà impugnare il licenziamento dinnanzi il Tribunale laddove ve ne siano i presupposti.
In caso di dimissioni il datore di lavoro può rinunciare al preavviso
Novità 2024 con ordinanza 6782/2024 della Corte di Cassazione relativa il preavviso nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato: il datore di lavoro che subisce il recesso del lavoratore può rinunciare alla prestazione lavorativa e così non pagare l’indennità di mancato preavviso.
In sintesi, la Corte ha stabilito che un lavoratore dimissionario non ha diritto all’indennità sostitutiva nel caso in cui il datore di lavoro rinunci al periodo di preavviso. Questa decisione ruota attorno alla natura del preavviso: se considerato “reale”, il rapporto di lavoro continua fino alla fine del periodo di preavviso; se “obbligatorio”, il preavviso si traduce in un mero obbligo accessorio, lasciando al lavoratore la scelta tra continuare il rapporto di lavoro o pagare un’indennità con effetto risolutivo immediato.
La Cassazione ha preferito l’interpretazione del preavviso come obbligo obbligatorio, sostenendo che la parte non recedente non deve nulla se rinuncia al preavviso. Ciò significa che il lavoratore non può pretendere la prosecuzione del rapporto fino al termine del preavviso.
La sentenza ha ribaltato le decisioni dei giudici di merito, che avevano riconosciuto al lavoratore il diritto di scegliere tra pagare l’indennità sostitutiva o lavorare fino al termine del preavviso.
Occorre tuttavia sempre considerare le clausole dei contratti collettivi nazionali, che in alcuni casi potrebbero prevedere obblighi diversi e prevalere sull’orientamento della Corte di Cassazione.
Il lavoro volontario nelle associazioni
Affinchè il lavoro nelle associazioni possa definirsi volontario, è necessario che l’interessato presti la propria opera a favore della collettività a titolo personale, spontaneo, gratuito.
Per quanto riguarda le spese vive, il volontario ha il solo diritto a vedersi riconosciute le spese vive sostenute e documentate.
Il lavoro irregolare nelle associazioni
Sotto il cappello della volontarietà non possono essere nascoste formule di sfruttamento del lavoro irregolare.
Volontario significa volontario, e non stipendiato con un rimborso spese corrisposto periodicamente dall’associazione datrice di lavoro.
Formule del tipo: “rimborso spese fisso di € 300”, o “a fronte dell’opera prestata il volontario riceverà un fondo spese pari ad € 400,00”, sono frasi indicative di un rapporto di lavoro subordinato.
Cosa fare in caso di lavoro da finto volontario
Se sei stato un finto volontario alle dipendenze di un’associazione o un ente noprofit allora potresti avere diritto alle seguenti tutele:
- l’impugnazione del licenziamento;
- le differenze retributive, da conteggiare sulla base del CCNL del Terzo Settore;
- al pagamento del TFR;
- la ricostituzione della posizione previdenziale.
- eventualmente la trasformazione del rapporto di lavoro in subordinato a tempo indeterminato.
Cosa puoi ottenere con l’impugnazione del licenziamento tramite un avvocato a Roma?
Dopo il Jobs Act del 2015, valgono regole diverse a seconda che il lavoratore licenziato sia stato assunto prima o dopo il 7 marzo 2015.
In particolare, per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, valgono le seguenti garanzie:
- Tutela reintegratoria piena: se licenziamento nullo o inefficace, a tutti i lavoratori,è riconosciuto il diritto a essere reintegrati nel posto di lavoro e a vedersi corrisposta un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione;
- al di fuori delle suddette ipotesi, le tutele variano a seconda delle dimensioni del datore di lavoro che ha comminato il licenziamento e del tipo di vizio che rende illegittimo il provvedimento espulsivo; in particolare:
- se il licenziamento viene intimato da un datore di lavoro che supera le soglie dimensionali previste dall’art. 18 della legge 300/1970 (più di 15 dipendenti) allora può essere previsto il reintegro nel luogo di lavoro;
- Se l’azienda ha meno di 15 dipendenti, il lavoratore illegittimamente licenziato ha il solo diritto a percepire un risarcimento economico.
Ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7/3/2015 in avanti si applicano, invece, le tutele previste dal jobs act in tema di “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
Qualora il licenziamento sia arrivato dopo il rifiuto da parte tua del trasferimento della sede, allora leggi qui.
E se il licenziamento è stato intimato verbalmente (solo a parole)?
Il licenziamento intimato verbalmente è inefficace.
Se è inefficace è come se non fosse avvenuto, con il conseguente diritto al risarcimento ed alla reintegra nel luogo di lavoro.
Se sei stato licenziato puoi contattare il nostro Studio per una consulenza senza impegno.
Il licenziamento dopo il rifiuto al trasferimento
La Suprema Corte di Cassazione con una recente pronuncia n. 15401 del 20/7/2020 ha accolto il ricorso di un lavoratore che è stato licenziato per tale ragione.
Tale pronuncia risulta essere significativa in quanto, differentemente dall’orientamento fin qui adottato sia dai giudici di legittimità che di merito, ha enunciato un nuovo principio di diritto che si uniforma alla giurisprudenza comunitaria.
“alla luce di una corretta interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a) della Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 (concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Sati membri in materia di licenziamenti collettivi), rientra nella nozione di licenziamento il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo.
Una tale interpretazione, conforme alla citata giurisprudenza della Corte di Giustizia, comporta il superamento della precedente dell’art. 24 l. 223/1991, anche alla luce del d.lgs. 152/97 di attuazione alla Direttiva comunitaria 26 giugno 1992, n. 56, nel senso che nel numero minimo di cinque licenziamenti, ivi considerato come sufficiente ad integrare l’ipotesi del licenziamento collettivo, non potessero includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorchè riferibili all’iniziativa del datore di lavoro”.
Quando c’è bisogno della procedura di licenziamento collettivo?
A seconda dei casi la legge prevede la necessità della procedura di licenziamento collettivo.
Ciò comporta una fase di informazione e consultazione sindacale prima dell’esecuzione dei licenziamenti.
Il risarcimento del danno al lavoratore per la sicurezza sul lavoro
In caso di mancata adozione da parte del datore di lavoro delle cautele necessarie a garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro è dovuto il risarcimento del danno.
La prescrizione del risarcimento del danno in favore del lavoratore decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, e non ha quando il lavoratore è stato esposto al rischio.
In questo senso da ultimo Cassazione 34377/2022 secondo cui:
“La prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute patito dal lavoratore in conseguenza della mancata adozione da parte del datore di lavoro di adeguate misure di sicurezza delle condizioni di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo percepibile e riconoscibile, solo se l’illecito sia istantaneo (ancorché con effetti permanenti) ovvero si esaurisca in un tempo definito mentre ove l’illecito si sia protratto nel tempo, ed abbia perciò carattere permanente, il termine di prescrizione comincia a decorrere al momento della definitiva cessazione della condotta inadempiente.
Inoltre la domanda giudiziale va identificata in base al bene della vita richiesto e ai fatti storici-materiali che delineano la fattispecie concreta.
Ne consegue che, se i fatti materiali ritualmente allegati rimangono immutati, è compito del giudice individuare quali tra essi assumano rilevanza giuridica, in relazione alla individuazione della fattispecie normativa astratta in cui tali fatti debbono essere sussunti ed indipendentemente dal tipo di diritto indicato dalla parte, senza che possa individuarsi alcun tipo di decadenza”.
Il licenziamento dei dirigenti durante l’emergenza Covid19
Il blocco dei licenziamenti si applica anche al dirigente?
In questo senso una recente sentenza del Tribunale di Roma che ha ordinato la reintegrazione di un dirigente licenziato il 23 luglio 2020 per soppressione della posizione, ritenendo tale licenziamento nullo per violazione del divieto imposto dalla normativa emergenziale (articolo 46 del Dl 18/2020 prorogato dal decreto legge Rilancio): il “blocco” andrebbe infatti interpretato nel senso di vietare i licenziamenti “economici” individuali anche nei confronti dei dirigenti.
In senso opposto un’altra decisione del Tribunale di Roma del 19/4/2021, la quale ha affermato che il blocco dei licenziamenti non può operare per i dirigenti, e ciò in particolare per un motivo: se il blocco dei licenziamenti dei lavoratori dipendenti è stato accompagnato dalla cassa integrazione “libera” per le aziende richiedenti, così non è stato per i dirigenti i quali restano esclusi dai trattamenti di integrazione salariale. Bloccare i licenziamenti per i lavoratori dipendenti significherebbe dunque porre a carico delle aziende i relativi costi.
Il divieto di licenziamento dei padri
Il d.lgs. 105/2022 ha esteso ai padri il divieto di licenziamento previsto per le lavoratrici fino ad un anno di età del figlio.
Per le madri era già previsto il divieto di licenziamento intimato dall’inizio della gravidanza, fino al periodo di fine interdizione dal lavoro e fino ad un anno di età del figlio.
Il padre beneficia di questa misura se usufruisce del congedo obbligato o alternativo.
L’INPS ha inoltre chiarito con messaggio 1356/2023 che:
- il padre che si dimetta nel periodo indicato ha diritto alla NASPI;
- anche in caso di dimissioni, il datore di lavoro deve versare il ticket di licenziamento (fino a 1800 euro).
Padre e madre che si dimettano durante il periodo in cui opera il divieto di licenziamento non sono tenuti al preavviso.
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